Un racconto di Christian e Rita
“Entrare nel sistema di sicurezza del Museo d’Orsay…”
Come avrebbe fatto? Pensava e ripensava senza sosta. Tutto era cominciato per caso..
Un pomeriggio Diana si trovava in un negozio di ferramenta per ritirare la doppia chiave di casa che aveva ordinato.
Arrivata al bancone, aveva sentito le parole di una donna che la precedeva nella fila. Sembrava molto presa dalla conversazione con un commesso, gli diceva della sua vita grigia, della sua anonima e spoglia abitazione presa in affitto da poco… raccontava che per arrivare a fine mese era costretta a lavare le scale per un pugno di spiccioli e che ogni sera tornava a casa esausta e spesso si addormentava sul piccolo divano del soggiorno.
Mentre parlava, metteva sul bancone un sottile pacco rettangolare che il commesso scartò. Dall’involucro marrone venne fuori un quadro.
“Me lo ha regalato mio zio, l’unico che mi è rimasto, forse perché voleva rendere meno triste la casa in cui abito.
Non mi sembra di gran valore, però mi piace e vorrei appenderlo. Mi servirebbero perciò chiodi e ganci”.
“Di solito quando le persone dicono di possedere qualcosa di poco valore è una bugia!” pensò Diana.
Decise dunque di pedinare la donna, accelerando il passo per
avvicinarsi il più possibile.
La cosa le riuscì facile perché la donna indossava dei tacchi, mentre lei aveva le sue solite scarpe da tennis.
Appena si trovò abbastanza vicino alla borsa della donna, azionò il dispositivo che teneva sempre in tasca per rubare i dati dei telefoni cellulari, ma l’operazione non ebbe successo, segno che quella non aveva il cellulare con sé.
Allora fu costretta a seguirla fino a casa. Percorsero stradine tortuose, su ciottoli sconnessi al punto che Diana rischiò di cadere quando un passante distratto la urtò.
Dopo una mezz’ oretta giunsero davanti ad una palazzina a due piani, sormontata da un abbaino.
“Finalmente ho scoperto dove abiti!” pensò soddisfatta, ridendo fra sé e
sé.
La sua scaltrezza era ancora intatta, la sua agilità pure, e compiaciuta, rimase ad osservare le mosse della sua preda.
Quando la donna entrò in casa, cominciò a spiarla dalla finestra del soggiorno. Dopo un po’ quella salì su una scala a tre gradini per appendere il quadro che, però, cadde, finì sul pavimento di pietra e la cornice si ruppe in mille pezzi.
Diana era riuscita comunque a scattare una foto poco prima del piccolo disastro. Tornò a casa sua e osservò con attenzione la foto del quadro.
“Che perdita di tempo, questo quadro non vale nemmeno un euro…anche piuttosto brutto!” borbottò; perciò decise di lasciar perdere.
Con ancora tutta la delusione e il nervosismo addosso, si lasciò cadere sul divano, sciolse i capelli e, coprendosi con un plaid, si mise a dormire.
La mattina seguente, appena sveglia e ancora distesa sul divano, prese il telefono, come era solita fare, per controllare le notizie del giorno.
Scorse le pagine dei giornali dallo schermo del cellulare, tra una cronaca e l’altra, la sua attenzione si posò su una in particolare: in quel giorno si sarebbe messo all’asta un quadro e un curatore del Museo d’Orsay figurava fra i possibili acquirenti. Si trattava di una pregiata, quanto poco nota, opera di Monet.
Diana continuò a leggere l’articolo e scoprì che quell’opera era ritenuta di grande valore.
Guardando più attentamente le fotografie che illustravano l’articolo, si rese conto, dopo un attimo di stupore, che la foto in basso ritraeva il quadro e una donna, che altri non erano che proprio quel quadro e quella donna che lei aveva spiato dalla finestra nel pomeriggio del giorno prima.
L’indomani, Diana sulla prima pagina del giornale che solitamente comprava, lesse una notizia:
“Quadro originale di Monet acquistato dal museo d’Orsay per un
milione di euro”.
A quel punto pensò che era venuto il tempo nella sua carriera di tentare il colpo della vita.
Occorreva un piano perfetto.
Convocò dunque gli uomini della sua banda per organizzare il colpo: sarebbero entrati al museo alle prime luci dell’alba del settimo giorno a partire da quel momento.
I giorni passarono in fretta e alla fine tutto era pronto.
All’alba del giorno convenuto, parcheggiarono il loro furgone blu a circa 100 metri dall’ingresso laterale del Museo, ciascuno indossò la maschera di un animale che aveva scelto, tutti misero gli zaini in spalla e scesero dal furgone.
Ma non appena misero piede sull’asfalto, si ritrovarono quasi per magia circondati da decine di gendarmi che, ad armi spianate, intimarono: “Alt! Fermi o spariamo!”
La banda non tentò neanche di fuggire: alzate le mani e gettati a terra gli zaini, si arrese.
Quando i gendarmi tolsero le maschere ai criminali, i loro volti mostravano un mix di rabbia e paura tranne uno, quello di Diana. I suoi occhi di ghiaccio si fissarono sul volto di una donna in divisa che lei riconobbe: era la proprietaria del quadro.
“Paulette, a te l’onore di portare in gendarmeria questa signora per bene”- disse con enfasi ironica un collega.
Le pattuglie accesero le sirene e si diressero verso la centrale della Gendarmeria.
Giunte lì, le due donne si avviarono verso le celle di sicurezza. Paulette si girò verso Diana e spezzò il silenzio: “Era questo il quadro che cercavate?” disse con tono ironico e provocatorio mostrandole il quadro che volevano rubare e lo strappò davanti ai suoi occhi.
“Pensavi di riuscire a farla franca anche questa volta? Fine dei giochi” continuò l’agente.
Diana, accesa di ira, diede un pugno con tutta la forza che aveva alle sbarre davanti a lei e urlò:” Sei una sbirra da quattro soldi! Che significa tutto questo?!”
“Pensavi di essere più furba di me, ma sei caduta nella mia trappola, ho vinto io questa volta!” rispose l’agente ridacchiando.
“Mi devi dire come hai fatto, adesso!”
“Ti spiegherò con piacere.
E’ iniziato tutto due anni fa, quando la tua banda fece il famoso colpo alla Banque Central. Ricordi?
Un capolavoro, la maga dell’informatica che entra nel sistema di sicurezza della banca più grande del paese… Il commissario della Gendarmeria affidò alla mia squadra il compito di scovarvi per sbattervi tutti in cella. Siamo stati per tutto questo tempo sulle vostre tracce, ma sembrava foste sempre di tre passi avanti a noi.
Fino a che alla squadra venne in mente qualcosa: invece di sventare il vostro prossimo colpo abbiamo pensato di impacchettarvene uno noi.”
“Maledetti! Che vi è venuto in mente? E’ impossibile!” proruppe Diana accesa di odio.
“Eppure ce l’abbiamo fatta, come puoi vedere. Inizialmente non avevamo idea di come costruire la finta occasione di furto.
Ti abbiamo pedinato ogni giorno, dalla mattina alla sera, finché sei andata lì da quel ferramenta, per chiedere una doppia chiave e il commesso ti disse di tornare dopo una settimana; in quel momento c’è venuta un’ idea geniale: fingere di possedere un quadro di grande valore.
Mi finsi una cliente del negozio e riuscii ad attirare la tua attenzione; sapevo benissimo che, uscita dalla ferramenta, mi stavi seguendo e mi stavi spiando dalla finestra del mio soggiorno; pensavi non me ne fossi accorta?
Il giorno dopo ci eravamo messi d’accordo con il redattore del giornale locale che tu solitamente compri, per spacciare un quadro palesemente falso per un’opera d’arte di grande valore.
A quel punto eravamo sicuri foste caduti in trappola, infatti avete preparato il “colpo del secolo”.
C’è una cosa che però devi sapere, ricordi l’uomo che hai urtato mentre
eri intenta a seguirmi? Era un agente in borghese che è riuscito a metterti un microfono microscopico nella spalla, a prova di rilevamento; perciò abbiamo sentito ogni singolo dettaglio del colpo, sapevamo dove e quando sareste venuti.
Ed eccoci qua, vi abbiamo aspettato per tutta la notte e siete venuti all’appuntamento.
Neanche ci siamo sforzati di inseguirvi perché siete stati voi a venire da noi.
Adesso divertitevi in carcere.
Nel frattempo le pattuglie erano arrivate alla centrale, i ladri furono spediti in cella. Tutta la banda ricevette una condanna a 15 anni da scontare nel Carcere de La Santé.
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale; il racconto è frutto della fantasia degli autori.