Un giorno all’improvviso

Un racconto di Agostino e Cristian

La mattina del 12 ottobre del 2005 il detective Zarbuzzo era in servizio per
le strade di San Francisco. Era stato avvisato che nel quartiere di
SunsetDistrict una donna era stata rapita dalla sua abitazione.
Zarbuzzo si precipitò sulla scena.

Arrivato, trovò la proprietaria della casa, Mrs. Frannie, sotto shock; la invitò
a bere un bicchiere d’acqua e a sedersi.
La donna si tranquillizzò e gli raccontò che, qualche settimana prima, aveva affittato il pianterreno della sua casa ad una straniera con un bambino; la straniera si chiamava Sarah, del bambino invece non conosceva l’aspetto né sapeva il nome.

Erano delle persone molto tranquille -disse- che non avevano mai creato nessun problema, fino a quel momento.
Solo la sera prima aveva sentito rumori e urla provenire dalla casa di Sarah; si era insospettita, ma non aveva voluto disturbare.

L’indomani mattina era scesa per bussare alla porta della donna per sapere se stesse bene, ma non aveva ricevuto nessuna risposta. Allora preoccupata, aveva deciso di entrare. La casa era a soqquadro: schegge di vetro per terra, la credenza ribaltata, i cassetti della cucina tutti aperti e sulla tavola un coltellaccio.

Allarmata, temendo di trovare un cadavere, aveva telefonato subito alla polizia. Mentre Mrs. Frannie spiegava l’accaduto, un pianto la interruppe: proveniva da una stanza. Il detective e la signora seguirono il pianto che li portò davanti a un baule.

Inizialmente esitarono ad aprirlo, ma capendo che quello era il pianto di un bambino, sollevarono il coperchio.
Dentro vi scoprirono un bimbo di circa cinque anni, chiesero che cosa avesse e perché piangesse ma quello sembrava sordomuto.
Quando il bambino fu tratto fuori dal baule e smise di piangere, l’occhio del detective Zarbuzzo cadde subito sulla collana che il piccolo indossava: era identica a quella che era solita portare al collo sua madre, ormai defunta.

Si chiese come potesse essere finita lì, addosso a quel povero bambino. Le
domande erano molte, era davvero confuso, gli sudavano le mani ed era
diventato pallido.
Ad un tratto il bambino ricominciò a piangere disperatamente, ma il detective non poteva permettersi di essere debole in quel momento e riprese il controllo di se stesso. Provò nuovamente a parlare con il bambino, ma quello non rispondeva, doveva veramente essere muto.

Poco dopo arrivarono i poliziotti con i dati e la documentazione di Sarah e
del piccolo che si chiamava Jang.
Zarbuzzo prese in fretta i fascicoli e dai documenti di Sarah scoprì che aveva un angioma a forma di stella sulla guancia.
Qualcosa allora si affacciò alla sua mente… poi ebbe un flashback: quel particolare gli fece ricordare di una bambina con cui giocava da piccolo, ma che non aveva rivisto mai più, fino a dimenticarsi della sua esistenza.

Dovette sgombrare la testa dai ricordi e tornare ad essere presto operativo;
dunque Jang era il figlio di Sarah ed era anche l’unico testimone dell’accaduto fino a quel momento.
Zarbuzzo chiese il permesso di custodia temporanea del bambino, almeno fino a che non si fosse fatta luce sulla sorte della madre.
Il personale della centrale, addetto a tali pratiche, accettò la richiesta.

Il detective salì sul suo fuoristrada col bambino e lo portò a mangiare un boccone alla prima tavola calda che incontrarono.
Si fermarono al “Mom’s spaghetti”.
Zarbuzzo cercò di stabilire un certo contatto con il piccolo, ma si chiese
“come devo comportarmi con un bambino sordomuto?’.
Tentò di essere naturale, ma era evidente che non ci sapeva fare;

Jang percepì la difficoltà dell’ispettore, allora prese un tovagliolo di carta che trovò su un tavolo, fece segno al cameriere di volere una penna e disegnò cosa avrebbe voluto mangiare. Zarbuzzo gli sorrise e i due andarono avanti nel dialogo, comunicando tramite disegni su fogli di
carta.

Mentre mangiavano, Zarbuzzo scorse sul viso di Jang un’espressione triste,
quindi prese la penna e un tovagliolo e glieli mise davanti: Jang disegnò il
volto di un uomo. La mano gli tremava, come se avesse paura.
L’ispettore pensò che quella paura potesse essere causata da ciò che il bambino aveva visto. Forse era davvero così.

Subito Zarbuzzo con il cellulare scattò una foto a quel disegno e la mandò al
collega John, che si occupava dei profili e degli identikit, per capire se da
quell’immagine si potesse risalire al volto di un uomo e se per caso fosse già
schedato.

Quando ebbero finito di mangiare, salirono in macchina e andarono alla centrale. Il detective aveva fatto segno a Jang di sedersi sulla poltrona del suo ufficio, quando si sentì chiamare da John.
Questi gli spiegò che l’unica corrispondenza che aveva trovato con quel
volto disegnato era un uomo di 50 anni di nome Carlos Coka, residente a
Taylor Street, uno dei quartieri più malavitosi di San Francisco.

Zarbuzzo allora affidò il bambino momentaneamente a John così da potersi
recare vicino all’abitazione del sospettato per indagare, anche se non avrebbe potuto entrarvi poiché non era in possesso dell’autorizzazione. Quindi decise di spiarlo. Si appostò con la sua automobile in una stradina nascosta, in modo da non destare sospetti, e dalla sua posizione poteva osservare bene la scena.

La casa era particolare: aveva solo una finestra e dentro non si accendeva
mai nessuna luce, anche quando cominciò a farsi sera.
Dopo qualche ora, Zarbuzzo vide una sagoma avvicinarsi sempre di più alla finestra, quella sagoma iniziò a sbattere la testa contro il vetro, come se volesse chiedere aiuto.

Il detective si allarmò, stava per scendere dall’auto ma all’improvviso la luce di quella stanza si accese e la sagoma di cui non si vedeva il volto, si
scopri essere quella di una donna.
“È Sarah?” si chiese l’ispettore.

La donna aveva la fronte ricoperta di sangue e alcune ferite sulle braccia e
sul viso; improvvisamente alle sue spalle comparve Carlos Coka che la prese con forza e la trascinò con sé, spegnendo la luce e chiudendo la porta della stanza.
Zarbuzzo chiamò subito la centrale, comunicando di aver trovato il rapitore di Sarah e chiedendo rinforzi perché l’uomo era pericoloso e potenzialmente armato.

I poliziotti arrivarono in un lampo, Zarbuzzo corse verso di loro e spiegò la situazione. Gli agenti bussarono con forza alla porta di quella casa, gridando più volte “Polizia, aprite subito!” ma nessuno rispondeva.

All’improvviso dall’interno della casa si sentirono delle urla che chiedevano aiuto e la polizia quindi non esitò a fare irruzione. Appena entrati, gli agenti videro Carlos che puntava la pistola sulla fronte di Sarah.
Dapprima cercarono di far riporre l’arma al rapitore, ma l’aria si faceva
sempre più pesante, Carlos puntò la sua 9mm alla tempia di Sarah, stava per premere il grilletto, non accennava ad abbassare l’arma, le sue pupille erano dilatate.

Zarbuzzo chiuse gli occhi ed esplose il colpo che arrivò in fronte al rapitore. Carlos si accasciò sul pavimento, privo di vita. Sarah corse via verso la porta: era salva.
Uscí dalla casa insieme ai poliziotti, che le chiesero come stesse, ma la donna era sotto shock e non riusciva a rispondere. L’unica cosa che dopo
qualche minuto uscì dalla sue labbra fu: “Jang” seguito da “tu perdi sangue!”.

Zarbuzzo era stato colpito. Furono chiamati i soccorsi, in poco tempo giunse l’ambulanza che lo portò d’urgenza in ospedale. Sarah lo seguí.
In ospedale furono medicati e curati e riuscirono anche a riprendere le forze; dopo qualche ora, Sarah poté finalmente parlare con l’uomo che le aveva salvato la vita.

Zarbuzzo le spiegò come fosse riuscito a trovare il suo bambino e a scoprire il nome e la casa del rapitore. “Jang è rimasto al sicuro in centrale per tutto il tempo. I miei colleghi lo stanno portando qui adesso” la rassicurò infine.

Sarah fu enormemente grata a Zarbuzzo per aver salvato lei e il suo bambino. I due si abbracciarono d’istinto. Fu allora che Sarah sentì che il volto dell’uomo le era familiare e gli chiese il nome.
“Mi chiamo Ivan Zarbuzzo” le rispose.
A lei, sentendo pronunciare quel nome, venne subito in mente il fratellino con cui giocava da bimba, prima che la portassero in collegio per studiare, ma non disse una parola, si sentì stupida anche solo a pensare una cosa del genere: di quel bambino aveva perso le tracce.

Nel frattempo i poliziotti portarono Jang in lacrime che corse subito ad
abbracciare la madre. Sarah lo coprì di baci e il bambino la stringeva sempre più forte.
«È tutto finito” gli disse la madre. Era stato un proprio un incubo.

Jang aveva visto ciò che non doveva vedere. Era andato a giocare nel parco
come faceva sempre nel pomeriggio, ma quel giorno di tre mesi prima si era attardato un po’ di più, fino all’imbrunire, e tra i rami degli alberi e i cespugli aveva visto luccicare qualcosa… una lama che affondava nel ventre di un uomo; era stato un attimo, era corso via, ma aveva fatto rumore e chi teneva quella lama si era girato, i loro sguardi si erano incrociati.

Jang si era messo a correre sempre più forte, ma quello lo inseguiva e allora corse ancora di più fino a raggiungere casa. Si appoggiò con tutta la sua forza alla porta e a gesti e a sillabe raccontò tutto alla madre. Sarah ci aveva messo un attimo a raccogliere le loro cose, caricarle in auto e a scappare via.

Avevano cambiato casa già tre volte e quando erano arrivati da Mrs Frannie, si erano sentiti al sicuro, ma Carlos era arrivato anche lí.
Sarah aveva fatto appena in tempo a chiudere Jang nel baule quando quello
era entrato in casa e l’aveva minacciata, poi, davanti al suo silenzio, l’aveva
portata via.

Ora che era tutto chiaro, Zarbuzzo aveva solo un’ultima domanda da fare e sperava che Sarah avrebbe potuto risolvere i suoi dubbi. Le chiese della collana di Jang, lei rispose che era della madre ormai morta. Ivan la guardò dritto negli occhi, sconvolto scoppiò in lacrime e la abbracciò chiamandola sorella.

I genitori erano morti improvvisamente e i due fratelli, Sarah e Ivan, erano stati affidati a due famiglie diverse. Non si erano più visti ma ora si erano ritrovati: i fili del fato dei fratelli erano destinati a intrecciarsi sin dal momento in cui l’ago aveva cominciato a tessere la tela della loro vita.
Ora finalmente sarebbero stati di nuovo e per sempre una famiglia.

Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale; il racconto è frutto della fantasia degli autori.


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